Delitto e sorriso a Brancaccio sulle tracce di 3P

Da La Repubblica Palermo (7 novembre 2014) 

La Brancaccio della mafia e dei delitti contro quella del sorriso. La Brancaccio che ha sacrificato un prete sull’altare dell’omertà fa da sfondo al nuovo romanzo di Alessandro D’Avenia, scrittore palermitano tradotto in ventidue lingue. «Metti l’amore e avrai “Ciò che inferno non è”», scrive D’Avenia. Così l’autore di “Bianca come il latte, rossa come il sangue” e “Cose che nessuno sa”, best seller da un milione di copie per 22 edizioni straniere, torna in libreria con un romanzo dedicato alla sua Palermo.

La storia di don Puglisi si intreccia con quella dei “suoi” ragazzi, quelli del liceo Vittorio Emanuele e quelli che abitavano il quartiere nell’estate del 1993.

Il protagonista del romanzo (che si presenta domani ai Cantieri), Federico, si spoglia delle sue illusioni da bambino e diventa uomo, affrontando una realtà che da via Notarbartolo difficilmente poteva immaginare. Rinuncia a una vacanza a Oxford per rimanere a Brancaccio. In nome di un valore e per una città che intreccia luce e lutto, paradiso in una strada e inferno girato l’angolo. La Brancaccio di quegli anni appare assolata, arida, lontanissima da Palermo e dal mare, circondata di freddo cemento. I protagonisti sono i ragazzi, «simili a semi sparsi in un campo che le spine vogliono soffocare», sono quelli che giocano a calcio tra le macchine, che rubano (iniziando dalle biciclette), che sanno che per andare avanti devono essere più forti di qualcun altro. E sopravvivere. Anche alle violenze. Sono bimbi perduti che don Pino cerca di salvare, diventando un arbitro imparziale delle loro partite di pallone, cercando di dimostrare che nella vita si può scegliere.

«Puglisi era il professore del mio liceo. I miei fratelli lo hanno avuto come insegnante, io solo come supplente. Lo incontravo in corridoio: all’intervallo amava sostare lì, per essere disponibile alle domande, alle chiacchiere con i ragazzi. Ricordo il sorriso tranquillo, anche se stanco per il gran lavoro che portava avanti. Un sorriso che veniva da lontano, non dalla città degli uomini, ma da quella di Dio. Un’unica immagine che ha generato il romanzo: il sorriso all’assassino che sta per sparargli. Volevo capire se si trattasse di facile agiografia postuma, o di realtà. L’assassino quando diventò collaboratore di giustizia confessò che non dormiva la notte per quel sorriso, ed era uno dei criminali della mafia tra i più efferati». E poi ci sono i ragazzi del Centro, quelli che Federico scopre per caso. Sono forti nella loro semplicità. Lavorano per il bene del quartiere che passa attraverso l’organizzazione di un torneo sportivo e solidarietà in ricordo di Borsellino. «Volevo che fosse un romanzo sui ragazzi e i bambini, sulle vite rese sacre da don Pino: il sacrificio non sta nella morte, manel sacrum facere: rendere
sacro quello che incontri nella vita. Così faceva lui e così erano quei ragazzi e bambini, dietro la superficie infernale. Un romanzo sulle vite messe in moto dal suo sacrificio quotidiano ». 
C’è Lucia, che affronta la povertà con dignità investendo in cultura e c’è Serena, la cui gioventù viene rubata troppo presto. E c’è Brancaccio, un quartiere il cui nome ricorda il branco. Qui o si è prede o cacciatori. E la devozione più che in chiesa di deve agli dei del quartiere e a chi ti chiede il pizzo. E uccidere diventa un punto di equilibrio.

«Brancaccio oggi è un po’ più luminoso, ma si sente sempre quel senso di oppressione del cemento che ha ricoperto tutto in anni di follia urbanistica, in una zona che si contraddistingueva per giardini e vicinanza al mare - dice D’Avenia- C’è come un muro che impedisce alla grandezza del mare, alla freschezza del vento, di penetrare in quelle strade. Allo stesso tempo ho visto uomini e donne che continuano silenziosamente il loro operato al Centro Padre Nostro e nella parrocchia di San Gaetano».

Palermo è «Tutto porto per chi arriva. Tutto Spasimo per chi resta. Città costruita sul paradosso, città in cui si è sempre in arrivo e in attesa».

«La città è il personaggio per eccellenza del romanzo con cui tutti gli altri, in carne e ossa, devono loro malgrado confrontarsi - spiega lo scrittore - La prima parte del romanzo, “Tuttoporto”, rappresenta l’abbraccio della città per chi arriva, la seconda “Spasimo” è la tensione alla fuga, la gioia di un amore ma anche il dolore di una mancanza. Inoltre il quadro di Raffaello, che era nella chiesa dello Spasimo, oggi al Prado di Madrid, fu donato in cambio di privilegi da un borghese di Palermo al Viceré che lo regalò al re spagnolo. Per me è un simbolo della nostra dignità svenduta, barattata per due spiccioli. In qualche modo quella chiesa priva di tetto, priva del suo quadro meraviglioso, ma con un albero secolare che vi cresce dentro, è simbolo di tutta la città». 
Alessandro D’Avenia insegna a Milano e il suo blog profduepuntozero. it è molto seguito da insegnanti e allievi. «Da lontano si tende a generalizzare e a pensare che sia tutto marcio. Ma Palermo è la città che genera sì i mafiosi ma anche Falcone, Borsellino, Puglisi. Ma la mafia, come diceva Borsellino, non è solo quella delle stragi, è quella contiguità che è già complicità: le raccomandazioni, i posti truccati, i concorsi già decisi, una burocrazia e amministrazione regionale spaventosa. Puglisi morì anche per questo: quante volte aveva bussato per avere dei permessi mai concessi?». Nell’ignoranza e nella povertà la zizzania mafiosa cresce più facilmente, per questo don Puglisi si ritrova nell’estate che precede la sua morte a insegnare il buon esempio, senza predicare. Un misto di ricordi dell’autore che rende il romanzo verosimile: «Non sarà una guerra contro i mafiosi a cambiare Brancaccio, ma la resistenza paziente e costante all’ignoranza e alla miseria — dice il Puglisi di D’Avenia — Voglio preparare dei giochi estivi per i ragazzi, portarli al mare e a vedere le stelle». A distanza di vent’anni la situazione è cambiata ma siamo ancora lontani dal sogni di Puglisi. «L’indolenza, il lasciare andare tutto com’è, è parte dell’inferno - dice D’Avenia - Basti pensare che la scuola media per cui padre Pino aveva lottato tanto è stata aperta solo nel 2000 e gli scantinati di via Hazon, che lui chiedeva di usare per fare attività con i ragazzi, gli scantinati in cui sostò il tritolo per Borsellino, in cui avveniva spaccio, prostituzione, duelli tra cani da combattimento, sono stati bonificati solo nel 2005. Luce e tenebre continuano come allora: e gli uomini scelgono o l’una o le altre, come allora. I ragazzi che lavorano adesso al Centro Padre Nostro mi raccontavano che oggi come allora è una lotta contro convinzioni già radicate nei bambini. Ci vuole un lavoro molto più attento alle famiglie e ai ragazzi. Palermo in questi anni è diventata più bella e curata, ma non basta abbellire le pietre. Adesso a Brancaccio stanno raccogliendo i fondi per la nuova chiesa dedicata a don Pino: sarebbe bello che tutta la città si mobilitasse». 
La copertina del libro, realizzata da Marta D’Avenia rappresenta il castello Tafuri a Portopalo di Capo Passero, la punta più a sud della Sicilia, e racconta di una terra «che a volte non sa prendersi cura della sua bellezza, e addirittura arriva a sfregiarla». Un sorriso può cambiare il mondo, perfino quello buio del cacciatore, l’assassino di don Puglisi. «Tutto il romanzo è nato dal voler scandagliare quel sorriso. Volevo capire come si muore così liberi dall’odio e dalla morte stessa. Chi muore così sa anche vivere e insegna a vivere a noi che restiamo. L’inferno fa molto più rumore ed è più visibile, ma il paradiso non è distruttibile dalla violenza umana».

 (€ 19,00, Pagine 317, Mondadori)

 ADRIANA FALSONE